RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO:
Sono passati esattamente 10 anni da quel fatidico 18 gennaio 2001, giorno in cui venne approvato il Piano (particolareggiato) di Recupero del Centro Storico di S. Salvo: ed è giunto il momento dei bilanci, della verifica di quanto proposto e deliberato all’epoca e di quanto effettivamente realizzato fino ad oggi nella città storica.
Di fronte ad una preoccupante tendenza all’abbandono e al degrado degli immobili nel centro cittadino, gli estensori del Piano di Recupero avevano allora espresso - nella relazione generale – l’intenzione di voler:
1. incentivare il recupero edilizio e la riqualificazione urbanistica del patrimonio architettonico esistente;
2. favorire l’adeguamento della dotazione dei servizi per la popolazione;
3. salvaguardare l’integrità dell’aspetto estetico-formale dell’ambiente urbano.
Secondo l’amministrazione comunale in carica occorreva uscire dalla fase di “ingessatura” prodotta dal precedente piano e invogliare i cittadini a tornare ad investire e ad abitare nel centro storico. A tal fine, anche il pubblico, a partire dalla stessa amministrazione, avrebbe investito delle risorse economiche in modo da contribuire fattivamente alla rivitalizzazione e riqualificazione di quel comparto di città.
In merito al primo punto, occorre riconoscere che sono stati effettuati parecchi interventi privati di recupero edilizio, soprattutto nelle zone tra corso Garibaldi e via Savoia e nel quartiere Istonio (seppure non bastanti a “rivitalizzare” quei quartieri); mentre minori sono stati gli interventi sugli edifici del borgo medievale (peraltro definito, chissà perché, “il Quadrilatero”, un termine che non esiste né nella cultura di élite né in quella popolare), un ettaro di superficie, cuore storico e simbolico dell’intero centro cittadino nonché area di grande interesse archeologico e monumentale.
Riguardo al secondo punto, le risorse investite dal pubblico per “adeguare i servizi” in quella parte di città sono stati in effetti di una certa consistenza, ma hanno prodotto risultati insoddisfacenti, con sprechi e danni evidenti.
Si pensi al problema dei posti auto, affrontato dapprima con la realizzazione del parcheggio di via Montegrappa (malprogettato e ora fatiscente, costato più di un milione di euro alla comunità) e poi, in ripiego, con la creazione di alcuni miniparcheggi, spesso non in grado di assicurare la sosta neppure agli utenti dei negozi, degli uffici, delle chiese e di altri servizi situati nel centro cittadino. Un esempio è la piazzetta M. D’Azeglio, vicino S. Nicola nuovo, che assicura il posteggio di 22-23 veicoli sottraendo spazio a quello che sarebbe dovuto diventare un giardino e che invece si configura come un luogo di sporcizia e di degrado. Una dimostrazione di come i miniparcheggi abbiano di fatto cancellato quei pochi spazi rimasti per il verde (sia pubblico che privato) e per la socializzazione delle persone.
Si pensi poi al rifacimento di piazza S. Vitale, che sarebbe potuta diventare una piccola “Piazza del Campo” e invece risulta occupata da aree archeologiche esposte alle intemperie (ci voleva il crollo della casa dei Gladiatori a Pompei per far capire a tutti che le aree archeologiche vanno protette!), da un parcheggio e altri ingombri che ne riducono l’agibilità e la fruibilità.
Si pensi alla risistemazione dei muraglioni di via Fontana e Fontana Vecchia, fatta con mattonacci nuovi mentre quelli vecchi andavano in discarica, e che ora appaiono già in parte lesionati. Si pensi alle abitazioni su cui è intervenuto direttamente il Comune, pesantemente ristrutturate o lasciate in abbandono (è questo il caso del palazzo Di Iorio-Bruno, sul lato nord di piazza S. Vitale). Persino nella cartellonistica turistica del Patto Trigno-Sinello, apposta a descrizione dei monumenti cittadini, si evidenziano errori vistosi. Davanti la chiesa di S. Giuseppe è da poco stata rimossa una tabella informativa che conteneva gravi imprecisioni sulla venuta a S. Salvo delle reliquie di S. Vitale e sulla intitolazione della parrocchiale a S. Giuseppe; davanti la chiesa vecchia di S. Nicola è invece scritto: “Originariamente la chiesa si trovava in località Panzanella...” (un’autentica panzana!, giacché la località si chiama Pantanella e solo così potremo capire a quale luogo ci si riferisca).
Quanto al terzo punto, la verifica è quasi del tutto negativa perché non solo non è stata “salvaguardata l’integrità dell’aspetto estetico-formale dell’ambiente urbano’ ma il centro storico salvanese risulta persino imbruttito, peggiorato nella sua identità.
Viviamo, è certo, un tempo di scarsa moralità, in cui l’etica è diventata del tutto soggettiva, ma continua ad avere molto credito, sia in ambito individuale che sociale, un valore come la bellezza. Ebbene, a S. Salvo si opera al contrario. Brutta, antistorica è la nuova Porta della Terra (realizzata poco prima del Piano ma in quel contesto), brutta la ringhiera in ferro dei muraglioni di via Fontana, Fontana Vecchia e di corso Umberto I; brutta e pesante la ristrutturazione dell’esterno del Palazzo Comunale; brutto e inutile il sottopassaggio di collegamento tra piazza S. Vitale e il muraglione di via Fontana Vecchia; brutto l’edificio, destinato a rimessa comunale e parcheggio, per ripianare lo scoscendimento sotto via Orientale; brutta la ridipintura di molte facciate, in quanto il piano colore ha ridotto le possibilità di scelta a poche tinte, con prevalenza di gialli, gialloni e giallini su tutti (tant’è che personalmente ormai definisco il giallo come “il colore del regime”), poiché non si è tenuto conto della grande varietà di colori barocchi, neoclassici e liberty (ocra e terra di Siena, rosa, celeste e verde chiaro, rosso pompeiano, blu casolano, grigio ecc. senza rinunciare al mattone o alla pietra facciavista, in tutto o nei particolari - lesene, marcapiani, portali -, oppure al facciavista con leggera scialbatura) presenti su vecchie residenze e ancora rintracciabili sui muri o per mezzo di foto. Tutto questo, mentre venivano demoliti diversi edifici storici, di cui almeno sei di notevole pregio architettonico, databili tra il Cinquecento e il Settecento.
Ciò è potuto accadere grazie al fatto che il Piano è prodigo di concessioni alla demolizione dell’esistente o all’aumento delle cubature, cosa che ha prodotto “recuperi” disarmonici nei volumi o non relazionati al contesto urbano mentre le sopraelevazioni (su corso Garibaldi e nel quartiere Istonio, in particolare) andavano ad alterare irrimediabilmente le prospettive visive delle schiere lungo le strade.
Eppure già nel Trecento, i Comuni italiani avevano compreso l’importanza della bellezza e dell’armonia nella costruzione della città. Nella Costituzione di Siena del 1309 c’è scritto: “Chi governa deve avere a cuore massimamente la bellezza della città, per cagione di diletto e allegrezza ai forestieri, per onore, prosperità e accrescimento della città e dei cittadini”.
Dalla degenerazione estetica del centro storico si sono salvati soltanto una ventina di edifici, alcuni a restauro altri a ristrutturazione senza ampliamento, grazie alla sensibilità dei proprietari e a quella dei tecnici e delle maestranze cui sono stati affidati i lavori di recupero. Almeno a loro, che hanno conservato il senso della bellezza e della misura, possiamo dire: “Grazie per quanto di buono avete fatto per voi e insieme per San Salvo!”.
Quale giudizio complessivo possiamo dunque dare oggi ai risultati di tanta fatica politica e progettuale? Nella sostanza, che il Piano di Recupero Centro Storico ha fallito gli obiettivi, se è vero che questa parte di città è diventata nell’ultimo decennio ancora più marginale di quanto non fosse prima. Conferma il giudizio la desertificazione di corso Garibaldi, con relativa chiusura di negozi ed attività e incremento di appartamenti vuoti (con numerosi cartelli di “Si vende” e “Si affitta”) e la desertificazione persino del borgo medievale, di quello che sarebbe dovuto divenire un centro direzionale o almeno “il salotto buono della città”.
Analizzando le cause di questo fallimento, si comprende come le motivazioni siano molteplici sebbene le principali attengono a:
I. la superficialità nello studio della città storica, soprattutto in relazione alla sua evoluzione (per cui, per conservarne l’identità, andava salvato anche il patrimonio architettonico minore, scampato a 70 anni di ininterrotti abbattimenti, 1929-1999) e la mancanza di un serio dibattito con i cittadini, a partire dalle questioni riguardanti “l’adeguamento dei servizi” nel centro storico;
II. il non aver compreso che la rivitalizzazione dei centri storici passa attraverso una riqualificazione funzionale degli stessi, perché se la città storica perde laboratori artigianali, negozi, mercati e altre attività economiche, se non conserva le attività culturali (centri culturali, mostre, cinema e teatro, luoghi di intrattenimento e discussione), formative (scuole, centri di formazione, università - quella che avrebbe potuto sorgere a Vasto e, perché no?, a Vasto/S. Salvo è un’altra occasione sprecata dalla classe dirigente locale, visto che Termoli, Lanciano e Isernia ospitano oggi diverse facoltà universitarie-) e burocratiche (uffici e agenzie di diverso tipo) non ha più prospettive per il futuro;
III. il non aver scommesso sul turismo, perché le case che non vanno bene come abitazioni (e sono tante, in effetti) ma che hanno un valore storico-architettonico potevano diventare case d’affitto, nella stagione estiva, per i turisti, nonché alberghi diffusi, bed and breakfast, centri di bellezza e salutistici, osterie e negozietti direttamente legati a questo tipo di utenza. Cosa che avrebbe facilitato la fruizione di monumenti e musei oltre che animato le serate estive del borgo medievale (ricordate le prime iniziative degli anni ‘90, del tipo “Cortili e porte aperte”?);
IV. l’aver dimenticato che anche l’aspetto tecnico alla fine è decisivo. E’ stata trascurata in quel Piano la questione della forma degli edifici, perché il problema non è solo restaurare al meglio ma anche ristrutturare o ricostruire ex novo al meglio, cioè sulla base di vincoli - formali, tipologici e riguardanti i materiali - in grado di evitare confusioni e pacchianate.
Nella relazione del Piano di Recupero Centro Storico di Vasto, del 2010, gli architetti Pier Luigi Cervellati e Paolo Marino distinguono non a caso le “proposte politiche” e le “proposte tecniche” e affermano che “la città storica si ripristina gradualmente”, in quanto si tratta di mantenerne l’identità “attualizzando i contenuti perché gli innesti moderni [fatti dopo il 1956] risultano obsoleti ancor più delle vecchie case fatiscenti, omologando la città storica alla periferia contemporanea”. Perciò il Piano dev’essere uno strumento ben definito e al tempo stesso duttile, migliorabile quando ci si accorge che si fanno errori.
Ma c’è un altro discorso da introdurre ed è quello del rapporto tra città storica e periferia urbana. Un problema che all’epoca non è stato neppure posto e che nessuno pone ancora adesso a S. Salvo, sebbene sia vero, anzi verissimo, che la città - pur avendo i suoi quartieri - alla fine risulta un organismo unico e pertanto per ben funzionare deve assolutamente relazionare, sintonizzare le sue parti. La cultura urbanistica più recente afferma non a caso che non è possibile salvaguardare e valorizzare una città storica se si continua ad urbanizzare il territorio agricolo circostante creando un paesaggio periferico disgregato e difficile da gestire oltre che una “bolla edilizia” che rischierebbe di scoppiare quando il mattone/cemento cessasse di costituire un bene-rifugio per gli investimenti privati.
Il fallimento delle aspettative sollevate dalle amministrazioni comunali di S. Salvo che hanno voluto, approvato e tradotto il Piano di Recupero Centro Storico segna perciò in conclusione anche la fine di un’altra grande ambizione della classe dirigente nostrana (il regime di centro-sinistra che ha retto il Comune ininterrottamente negli ultimi 17 anni): quella di sottrarre S. Salvo al ruolo di città operaia e di città dormitorio, di periferia della Regione Abruzzo per metterla nelle condizioni di poter sfidare Vasto e altre delle località maggiori proprio sul piano della qualità della vita e della capacità di porsi come referente di un intero territorio. La recente crisi economica, che impoverisce anche gli enti locali, unita alla mancanza di buone idee, spegne infatti inesorabilmente ogni velleità di cambiamento e condanna sempre più i politici odierni ad una banale, nonché spesso clientelare, gestione del quotidiano e dell’ordinario.
Giovanni Artese
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